“Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro

15665678_1825339571012961_331241896921654051_nDopo tanto tempo ho finalmente avuto l’occasione di leggere un libro che era nella mia lista desideri da non so quanti anni. Me lo ha regalato Martina, grazie ad una nuova edizione del giochino organizzato da Maria di Scratchbook che l’anno scorso ha portato tra le mie mani Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis. Quello di cui vi parlo oggi è un libro di cui v’innamorate già dal titolo, com’è successo a me, e con il quale poi, durante la lettura, cadete proprio fulminati: Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro, da cui è stato tratto anche un bellissimo (mi dicono, io devo ancora vederlo) film con Anthony Hopkins ed Emma Tompson.
È la mia ultima recensione del 2016 e anche l’ultima lettura, dato che non penso di riuscire ad iniziare qualcosa di nuovo tra oggi pomeriggio e domani, perché ultimamente sono davvero una trottola, vado sempre di corsa e tento di godermi la fine di quest’anno che è stato un po’ disastroso per tutti.

Il signor Stevens è un maggiordomo d’altri tempi, uno di quelli con grande dignità e professionalità che nel 1956 ormai non esistono quasi più in Inghilterra. Ha lavorato per molti anni al servizio di Lord Darlington e adesso si trova nella stessa casa, che però è stata comprata (tutta, parte della servitù compresa) dall’americano Mr. Farraday. Quest’ultimo decide di fargli un regalo: dovendo andare fuori, gli consiglia di farsi un viaggio e di svagarsi. Allora Stevens, un po’ titubante, accetta e parte con la Ford del padrone verso la Cornovaglia, attraverso la campagna inglese. Il viaggio, però, se in un primo momento è fisico, poi si trasforma in un’esplorazione della sua anima, diventa interiore perché il maggiordomo inizia a rielaborare il suo passato, le scelte che ha compiuto, quello che gli è mancato e, complice anche la solitudine durante il cammino, realizza che forse non è stato felice.

Stevens è un uomo tutto d’un pezzo, uno che si è sempre comportato come se fosse totalmente anaffettivo, mettendo da parte le proprie preoccupazioni e i propri desideri perché nulla ha mai dovuto infastidire o intralciare la vita familiare dei suoi padroni. Così facendo, quando suo padre è spirato lui non è potuto salire a dargli l’ultimo saluto perché era richiesto nella camera di lord Darlington, quando Miss Kenton ha fatto di tutto per fargli capire che si stava sposando ma era lui che voleva non ha battuto ciglio e l’ha lasciata andare via facendole le congratulazioni, quando gli ospiti del padrone hanno tentato spudoratamente di sbeffeggiarlo non ha fatto altro che incassare e non replicare. Insomma, ha preso alla lettera l’espressione “hanno il coltello dalla parte del manico e devo obbedire”, anche se nessuno gli ha mai detto di comportarsi così. In realtà è sempre stato lui ad avere una visione estrema della dignità, qualcosa su cui torna spesso a riflettere e di cui dibatte in più punti con altri personaggi. Questa dignità viene perfino definita come “non togliersi i panni di dosso in presenza di altre persone”, nel senso di non dover mai dare a nessuno la possibilità di vedere chi siamo, di vedere il nostro dolore, le nostre emozioni o i nostri crolli.

Capirete bene che Stevens, anche se non lo sa, è pieno fino all’orlo di rimpianti e alla fine del suo viaggio, fatte tutte le considerazioni del caso – si accorge realmente che poteva avere una vita migliore e che ha perso tanto – si pone la domanda fondamentale: è troppo tardi per cambiare vita oppure ormai sono rimasto incastrato in questa esistenza, in questa gabbia di ghiaccio che mi sono costruito da solo?
Chiaramente questa riflessione è portata all’estremo, ma siamo spesso in tanti a trovarci bloccati in una condizione e non riusciamo ad uscirne. Magari quando con qualcuno ci comportiamo in un certo modo e continuiamo a farlo perché ormai quello si è fatto quest’idea di noi e ne restiamo imprigionati. O quando crediamo che quel qualcuno si aspetti determinate cose da noi e le facciamo per compiacerlo.
Questo tormento interiore Ishiguro ce lo racconta con la delicatezza e la dignità (che ritorna sempre) di un maggiordomo inglese vecchio stampo a metà del Novecento. Ma mentre Stevens matura, anche il suo linguaggio cambia, quando racconta – in prima persona – le sue tappe e i suoi ricordi all’inizio è molto più duro e asettico, mentre man mano che si va avanti inizia a diventare più umano, scopre la sua interiorità.

Quel che resta del giorno è la storia di un uomo che per tutta la vita non ha fatto altro che reprimersi. Non sappiamo, effettivamente, se soffra per quello che si è precluso, conosciamo solamente il suo passato e le dinamiche del suo viaggio interiore, ma non possiamo arrivare a capire quanto in realtà gli sia mancato, dato che il suo carattere sembra aver compiuto danni irreparabili.
Buona lettura e soprattutto buon anno nuovo, pieno di buone letture e cose positive, che non guastano mai!

Titolo: Quel che resta del giorno
Autore: Kazuo Ishiguro
Traduttore: Maria Antonietta Saracino
Genere:
 Romanzo
Anno di pubblicazione:
 1989 (2016 questa edizione)
Pagine: 280
Prezzo: 12€
Editore: Einaudi

Giudizio personale: spienaspienaspienaspienaspiena

Briciole: “Il libro di Natale”, “Oggetti solidi”, “Applausi a scena vuota”

Premetto che so di essere pessima, ma in questo periodo sono più iperattiva del solito, faccio mille cose, la testa va per conto suo e non riesco a parlare bene e per esteso di ogni libro che leggo. Devo quindi ricorrere nuovamente alla rubrica Briciole per parlarvi delle mie ultime tre letture, purtroppo non come vorrei, ma è solo per darvi un’idea di quello che ho affrontato e per confrontarmi con voi qualora doveste conoscere questi libri. Mi dispiace moltissimo non riuscire a dire di più perché sono state tre letture veramente belle, un Nobel, un’autrice meravigliosa e quello che forse è il mio scrittore preferito. Ma c’è il Natale, i regali, l’anno che sta finendo (e voglio parlarvi adesso delle letture del 2016, senza sforare), io che ultimamente mi sono data alla pazza gioia e ho bisogno di divertimenti, quindi capirete che il tempo e la concentrazione scarseggiano. Ma andiamo al dunque.

lagerlofnatale1Il libro di Natale di Selma Lagerlöf è una raccolta di racconti che abbiamo scelto come ultima lettura di gruppo del 2016 su LeggoNobel. L’autrice ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1909 ed è stata la prima donna a ricevere questo riconoscimento. Questi racconti, che abbiamo finito di leggere praticamente in due giorni – perché il libro è davvero breve – sono un bel ritratto della Svezia di fine Ottocento / inizio Novecento e sembrano quasi delle favole. Quello che ha colpito molti di noi lettori è come abbia fatto la Lagerlöf a dare un’immagine così vivida e veritiera dell’infanzia quando lei era già più avanti negli anni. Per il resto l’atmosfera natalizia è al centro dei racconti, le famiglie che si siedono a tavola per la cena di Natale, i bambini che aprono i regali, il loro desiderio di trovare un libro sotto l’albero e soprattutto il budino di riso, di cui tocca trovare la ricetta perché sarà parecchio buono!
(Per chi volesse unirsi al gruppo, dal 9 gennaio cominceremo a leggere Furore di Steinbeck)
DETTAGLI: Il libro di Natale, Selma Lagerlöf, trad. M. C. Lombardi, Racconti, Letteratura svedese, 120 pp., Iperborea 2012, 12,50 €, 4/5 stelline


cop_woolf-1Oggetti solidi di Virginia Woolf è un gioiellino pubblicato da pochissimo da Racconti edizioni, una casa editrice che non crede assolutamente che i racconti non vendano, e ha ragione. Questa è una raccolta di racconti e prose brevi della grandissima Virginia Woolf, che io amo molto nonostante abbia letto pochissimo, ma forse è più la sua figura, la sua personalità particolare ad affascinarmi da sempre. In ogni caso, sto cominciando a recuperare molte cose.
Questo è un bel libro corposo e io a parlare di racconti sono una frana perché vorrei raccontarveli tutti ma per ovvi motivi non posso. Emerge la personalità di una donna che spesso non è a suo agio con chi la circonda, che vede al di là delle cose a differenza degli altri e a cui sta stretto il sistema di convenzioni sociali dentro cui tutti, volenti o nolenti, siamo intrappolati. In alcuni punti il linguaggio può sembrare poco scorrevole, ma trovo che le traduttrici siano state molto fedeli allo stile della Woolf, quindi chapeau!
DETTAGLI: Oggetti solidi, Virginia Woolf, trad. A. Bottini e F. Duranti, Racconti, Letteratura inglese, 479 pp., Racconti edizioni 2016, 19 €, 4/5 stelline


15420932_10210331403072856_6089163744151106989_nApplausi a scena vuota di David Grossman, uno degli autori che amo di più e che vorrei vincesse il Nobel, ma dirlo sembra quasi una bestialità, perdonatemi. Volutamente non ho ancora letto tutti i suoi libri, voglio sapere che finito uno me ne resterà sempre almeno un altro da parte.
Questo è uno degli ultimi, è del 2014, e vede come protagonista Dova’le, un uomo che sta facendo un singolare spettacolo di cabaret a cui ha invitato un altro signore, Avishai, sua vecchia conoscenza. Lo spettacolo è particolare perché Dova’le sembra avere questioni irrisolte col passato e con quella persona in particolare, e nel suo monologo – in cui a volte tenta di coinvolgere il pubblico – non fa altro che dire grandi verità e snocciolare aneddoti sulla sua vita, come se dovesse dare spiegazioni o restituire qualcosa a qualcuno. Dova’le, tanti anni prima, ha vissuto una situazione angosciante, e a distanza di molto tempo non è ancora venuto a capo della questione, non riesce a trovare la verità o a ritrovare se stesso.
Come tutti i romanzi di Grossman, anche questo è contorto e intenso, e perciò meraviglioso a suo modo. Credo sia un autore che si ama o si odia, perché non penso ci possano essere vie di mezzo. Ti colpisce al cuore oppure no, ma è giusto che sia così.
DETTAGLI: Applausi a scena vuota, David Grossman, trad. A. Shomroni, Romanzo, Letteratura israeliana, 176 pp., Mondadori, 2014, 18,50 €, 4/5 stelline

“Kambo e Iboga. Medicine sciamaniche in sinergia” di Giovanni Lattanzi

9788887660432_0_0_698_80Sempre seguendo il principio che quello che non so m’incuriosisce e posso impararlo, ho accettato una proposta di lettura parecchio interessante su un argomento che normalmente non affronto: la medicina sciamanica. Nello specifico, in Kambo e Iboga l’autore Giovanni Lattanzi ci spiega, anche secondo l’esperienza che ha vissuto in prima persona, la funzione di due sostanze sconosciute a molti di noi, sia quando vengono usate singolarmente che nel loro uso combinato. Il kambo è la secrezione gelatinosa prodotta dalla pelle di un anfibio che vive nella foresta amazzonica al fine di proteggersi dai suoi predatori, ma il termine indica anche la rana stessa. L’animale, nell’ambito della medicina sciamanica viene considerato un animale sacro e la secrezione è utilizzata come mezzo per comunicare con gli sciamani attraverso sogni o visioni. L’iboga, invece, è è una pianta che viene coltivata nell’Africa centrale e la sostanza ricavata da essa agisce sui blocchi emozionali aprendo l’individuo ad un processo di guarigione interiore, a differenza del kambo, che agisce più a livello fisico.

Lattanzi racconta, grazie anche a stralci di interviste e documenti, di essere stato iniziato sia al kambo che all’iboga, ma di essere stato il primo facilitatore di cerimonie che usano una combinazione delle due sostanze. Ha deciso di utilizzare il kambo prima della somministrazione della radice di iboga, così da purificare il corpo (tramite eliminazione delle tossine) e la mente e accogliere meglio l’ulteriore purificazione. A quanto pare, in questo modo, la pulizia dell’organismo avviene più velocemente e il processo di guarigione viene accelerato.
Ma guarigione da cosa? Si parla di una guarigione, forse, più che altro a livello emotivo, oltre che fisico, perché se durante le cerimonie il corpo espelle le impurità (si racconta di attacchi di vomito et similia), molta gente che ha intrapreso questi trattamenti riferisce di vedere “immagini” di esperienze passate o di avere vere e proprie visioni che vengono interpretate e spiegate dal facilitatore.

Il kambo e l’iboga, a quanto pare, non sono classificabili come stupefacenti (anche se in pochissimi luoghi sono vietati) e non creano dipendenza. L’assunzione va intrapresa con cautela, soprattutto per chi è agli inizi.
L’autore, in molti punti, entra nei dettagli e ci spiega questo tipo di trattamenti anche da un punto di vista più tecnico, infatti ho avuto piccole difficoltà a seguire. Ma si tratta solo di qualche dettaglio, che poi viene esposto anche ai profani. In generale, Kambo e Iboga è un libro che ci permette di scoprire dei rimedi sconosciuti alla maggior parte di noi occidentali che siamo più avvezzi alla medicina tradizionale, e può essere interessante documentarsi sul modo in cui altre popolazioni lontane da noi risolvono diversi problemi psicofisici. Però credo che tutto questo vada preso con le pinze, perché queste sono comunque ricerche recenti e mi sembra che ancora non siano particolarmente accreditate. Anche se, bisogna dirlo, ci sono tanti pregiudizi su questi temi.

Il libro di Giovanni Lattanzi è parecchio interessante e permette di calarsi in un mondo praticamente sconosciuto. Prima di cominciare a leggerlo avevo qualche perplessità sul fatto di riuscire a seguirlo perché si tratta pur sempre di saggistica e temevo potesse addentrarsi troppo in contesti più tecnici; anche se a volte lo fa, questo non ne mina la comprensione, perché risulta comunque chiarissimo. L’autore, con l’aiuto di interviste e testimonianze anche di altre persone, ci racconta come ha conosciuto il kambo e l’iboga, di come esse lo hanno aiutato a guarire e di come ha iniziato lui stesso ad essere un facilitatore di cerimonie, uno dei pochissimi in Europa. Spiega anche come avvengono i trattamenti e quali sono i rischi.
Per me è stata un’esperienza parecchio interessante, credo che lo possa essere anche per i più curiosi tra voi a cui piace scoprire cose nuove.

Buona lettura!

Titolo: Kambo e Iboga. Medicine sciamaniche in sinergia
Autore: Giovanni Lattanzi
Genere:
 Saggistica
Anno di pubblicazione:
 2016
Pagine: 402
Prezzo: 20 €
Editore: Bibliosofica

Giudizio personale: spienaspienaspienasmezzasvuota

“La femmina nuda” di Elena Stancanelli

Adesso so che niente ti tiene davvero al riparo dall’idiozia,
tantomeno quello che credi di essere,
l’armamentario che hai messo insieme.
L’intelligenza, l’esperienza, i libri. Niente.
E saperlo non mi rende più forte

 

15317853_1818010755079176_2188346998745088014_nSabato avevo bisogno di un libro piccino da finire entro domenica, perché già ho in lettura un saggio e una raccolta di racconti e oggi avremmo cominciato Selma Lagerlöf con #LeggoNobel. E perché non sei andata avanti coi racconti della Woolf o con l’altro libro, allora, direte voi? Perché complicarmi la vita è ciò che amo fare di più. Quindi mi sono ricordata di avere da parte un libricino piccolo piccolo ma che ha diviso moltissimo il pubblico: La femmina nuda di Elena Stancanelli, edito da La nave di Teseo a marzo 2016. Tantissimi amici mi hanno detto che non ne valeva la pena, altri, invece, gli hanno dato punteggi alti su Goodreads o comunque lo hanno gradito. Ho deciso di farmi una mia idea, al massimo avrei perso qualche ora.
Ci ho messo due giorni a leggerlo, ma non sono stati due giorni pieni, mi avrà preso in tutto circa tre ore e mezza di lettura, e devo dirvi che ne è valsa la pena.
In generale, credo che al giorno d’oggi siamo sempre meno disposti a metterci nei panni di altre persone e a capire fino in fondo le ragioni del loro agire e quindi probabilmente è per questo che tanti hanno bistrattato il libro della Stancanelli, che è pure arrivato in finale al Premio Strega 2016. In effetti, la storia è particolare e per alcuni potrebbe risultare pesante, specialmente per chi si scandalizza facilmente. Ma noi che ci buttiamo a capofitto in ogni tipo di romanzo ce ne infischiamo e ci godiamo la lettura.

Anna è una donna che ha passato la quarantina e da poco ha chiuso una storia di cinque anni con Davide. La realtà è che Davide l’ha tradita con diverse donne ma con una sembra avere una storia più seria: Cane, una cliente della sua officina (fa il meccanico) che ha un cagnetto che si chiama Cane e viene soprannominata così. La fine di una storia è sempre dolorosa, ma Anna cade proprio dalle nuvole perché mai avrebbe immaginato che l’uomo con cui era stata le potesse fare una cosa del genere alle spalle. Vuole sapere tutto di Davide, ha le sue password e le usa per spiare il suo account su Facebook, per leggere le sue email, riesce a sapere sempre dove lui si trovi usando la funzione dell’iPhone che permette di localizzare il cellulare. Ed è così che scopre i messaggi privati con Cane, quello che i due si dicono, e perfino dove abita la donna. Vuole conoscerla, sapere tutto di lei, perché quasi ogni donna che viene lasciata per un’altra si chiede: che cos’ha lei più di me? è più bella? più intelligente? più cosa?

Chi era migliore, quindi?
E soprattutto: eravamo davvero così diverse?
Sai, Vale, qual era l’unica incontestabile differenza tra me e Cane?
Che lei non era me.
Era un’altra.

Quella di Anna è una vera e propria ossessione che la porta a fare una serie di scelte sbagliate ma necessarie ai fini di una guarigione emotiva. E questa ossessione Anna sembra raccontarla in una sorta di lunga lettera alla sua amica Vale, quella che per tutto il tempo in cui lei si è tormentata le è stata vicina, ha tentato di capirla e di farla stare meglio. Mentre perdeva dieci chili, mentre non mangiava più, mentre beveva fino a crollare per svegliarsi riversa sul pavimento di casa sua diverse ore dopo.
Anna viene risucchiata nel suo stesso vortice di emozioni, anche per colpa di Davide che non sembra lasciarla definitivamente. Per una specie di sadismo, quando cambia le password sceglie sempre quelle che lei può indovinare, si fa vedere, va a letto con lei di tanto in tanto, le fa capire che può stare con lei e con le altre contemporaneamente. Anna rimane impigliata in una relazione che non esiste più e per cui sa benissimo che non c’è più niente da fare, diventa (quasi) una stalker e violare la privacy è un reato penale. Ma per entrare nella storia bisogna calarsi completamente nei panni di una donna che sta vivendo un forte trauma emotivo e non riesce a capire cosa sia giusto e cosa no.

Il corpo scarta. Si ammala, ti molla in mezzo alla strada, ti stordisce. Ma a volte, senza che tu te ne accorga, ti porta in salvo, lontanissimo.

Anna riparte dal suo corpo per guarire, e la sessualità ha un ruolo molto importante all’interno del romanzo. Innanzitutto dimagrisce tantissimo, prima perché si nutre solo di succhi di frutta e crackers, poi perché si sente meglio nel suo nuovo corpo. In secondo luogo si butta tra le braccia di diversi uomini come un automa, solo perché in quel momento quegli uomini hanno bisogno di lei e basta. E anche il linguaggio cambia in diversi punti: per sottolineare lo squallore di certi comportamenti e far notare al massimo quanto Anna abbia toccato il fondo, la Stancanelli adotta uno stile più sciatto, usa termini volgari e per nulla eleganti.
Il libro scorre davvero molto velocemente, come ho già detto si legge in poche ore e per me non è stato per nulla noioso. Quello della protagonista è un percorso che molte donne si trovano a intraprendere per guarire da una forte delusione, lei ci mette circa un anno, altre possono metterci meno. Ma sta di fatto che ognuno di noi segue la sua strada e ogni scelta che facciamo può essere sbagliata ma è anche necessaria per uscire dal tunnel delle ossessioni.
E poi, è solo una storia, no?

Titolo: La femmina nuda
Autore: Elena Stancanelli
Genere:
 Romanzo
Anno di pubblicazione:
 marzo 2016
Pagine: 156
Prezzo: 17 €
Editore: La nave di Teseo

Giudizio personale: spienaspienaspienaspienasvuota