“L’oceano,” dissi, “guardalo, laggiù, si rompe sulla spiaggia,
va e viene, non si ferma mai. E là sotto i pesci,
i poveri pesci che combattono per la vita, che si mangiano a vicenda.
Noi siamo come quei pesci, solo che siamo quassù.
Una mossa sbagliata ed è finita. È bello essere un campione.
È bello sapere qual è la mossa giusta.”
Mi capita spesso, per i motivi più svariati, di snobbare autori che credo non facciano per me. Uno di questi è Charles Bukowski, che ho sempre visto parecchio lontano da me in quanto a stile e che è troppo di moda, le sue citazioni sempre più inflazionate e spesso in bocca a gente che i suoi libri non li ha nemmeno aperti. Ora, non credo che per sentirsi più intellettuali basti riempirsi la bocca di parolacce e termini presi dai più bassi registri linguistici, ma comunque alla fine ho ceduto perché per varie ragioni mi è venuto il dubbio che potessi aver fatto un errore di valutazione. Mi sono messa a leggere Post Office per cercare di capire quest’autore, l’ho fatto con le migliori intenzioni e in maniera quasi del tutto oggettiva.
Il protagonista del romanzo è Henry Chinaski, un postino sui generis che passa la vita tra alcol, sesso e corse dei cavalli. Bukowski lo ha creato a propria immagine e somiglianza, lui stesso ha lavorato per anni alle poste, ha avuto problemi con l’alcool e varie esperienze sessuali (che poi racconta nei romanzi). Data la sua scarsa lucidità, non fa altro che ricevere e collezionare ammonimenti dalla direzione delle poste, mentre se la spassa con le donne e si ritira a casa sempre ubriaco (una volta viene pure arrestato). Insomma, la trama non è così particolare da destare stupore o da colpire il lettore, e forse è proprio questo – insieme ad altri fattori – il motivo per cui l’autore è stato così osannato dal pubblico e si trova un po’ in tutte le librerie nelle nostre case. Quella che Bukowski racconta è una parte della vita di Chinaski caratterizzata, praticamente, dal nulla, è come se ci fosse un vuoto all’interno del quale il protagonista si muove da un’amante all’altra, da un rimprovero all’altro, senza quasi opporre resistenza. Si lascia trascinare dagli eventi in un mondo sordido, esprimendosi in modo squallido, leggendolo si avverte quella sensazione di sporco che caratterizza gli ambienti e la gente con cui entra in contatto (mi viene in mente adesso il collega delle poste sudaticcio, ma di quel sudore stantio di giorni, o il cane sporco di fango, con le mosche perennemente addosso, che nessuno pulisce).
Questo libro non ha fatto nascere in me la passione per Charles Bukowski, l’ho letto cercando di rintracciare ciò che di profondo poteva esserci in tutta questa storia e penso di non averlo trovato del tutto. Per certo posso dire di aver capito che ciò che caratterizza la vita di Chinaski (e non so se anche di Bukowski, dato che non lo conosco bene) è una mancanza di sentimenti, di punti fermi; insomma, è capace di andare da una parte all’altra, di cambiare casa, amante, di lasciare un lavoro e non fare nulla, senza avere la preoccupazione di aver perso qualcosa di importante.
Andando su Wikipedia, nella pagina dedicata all’autore, mi sono imbattuta in una sua citazione, in cui dice che «la vita è profonda nella sua semplicità», e forse è proprio da qui che bisogna partire per leggere Bukowski, un po’ com’era stato con Stoner (che non sto per niente paragonando a lui, ma il concetto è sempre quello): anche quando non succedono grandi cose, c’è comunque qualcosa da raccontare, e in quel qualcosa ci può essere una profondità che non ci aspetteremmo se non guardassimo con occhio attento.
Come ho detto all’inizio, lo stile di questo autore non mi è congeniale, io prediligo una prosa più elegante, un linguaggio più curato (devo essere onesta, a volte ho provato fastidio). Giorni fa mi è capitato di leggere alcune sue poesie sfogliando un libro (La canzone dei folli. Poesie II) e alcune mi erano anche piaciute. Mi sa che tra me e Bukowski, comunque, non è finita qui, proverò a leggere qualcos’altro, magari deciderò di persistere con le poesie o mi darò ai racconti, chissà. Nel frattempo, fatemi sapere che ne pensate.
Buona lettura!
Titolo: Post Office
Autore: Charles Bukowski
Traduttore: S. Viciani
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 1971 (2017 questa edizione)
Pagine: 192
Prezzo: 5 €
Editore: TEA
Coraggiosa recensione la tua, te ne do atto. Parli di un grande autore con la sincerità di chi non lo apprezza ma con la curiosità di chi ama la letteratura e vuole comprenderla fino in fondo. Così dovrebbero essere i critici: umili e onesti. 🙂
Ti ringrazio!
io avevo provato a leggere “Storie di ordinaria follia” e avevo la tua stessa idea.
non sono nemmeno riuscita a finirlo.
io e Bukowski non siamo per nulla affini!
Secondo me per capirlo bene devi metterti completamente nei suoi panni e immaginare un mondo che non ti appartiene.
Io ci riproverò, e secondo me continuerà a non piacermi, ma ci vuole un parere oggettivo.
Consiglio storie di ordinaria follia, lì capisci se tra voi è finita o se c’è un barlume di speranza
Grazie per il consiglio, me lo segno e riproverò con quello!
anche di questo autore ho diversi volumi sugli scaffali, ma non ho ancora trovato il coraggio di leggerlo. lo sento sempre nominare, ma ho paura che le oscenità e le parolacce mi facciano perdere di vista il messaggio che l’autore vuol trasmettere (e che a detta di quelli che lo sconoscono, è piuttosto profondo). aspetterò…
Infatti bisogna fare attenzione, non lasciarsi distrarre dalla forma ma andare alla sostanza.
Ho letto “Post office” no per capire Bukowski, ma perchè mio padre è stato un postino e mi divertiva l’idea di leggere le avventure di chi, ero sicuro, aveva una visione di vita completamente diversa dalla sua. Mi ha divertito, ma non resterà nel mio cuore.
Ti seguo con piacere, a presto.
Grazie!!!
Per capire Charles Bukowski e carpire la profondità dei suoi pensieri, bisogna togliersi dalla testa tutti i pregiudizi e lezioncine varie impartiteci dalla società moderna, ipocrita e antirealista, secondo cui un cerbiatto è bello e uno scarafaggio è brutto.
Ma capisco che questo è un dono che appartiene a pochi, le masse non capiranno mai la bellezza della cosiddetta “bruttezza” o “imperfezione”, un altro requisito è passare tanto tempo in Solitudine, a mio avviso l’unica grande Maestra di Vita.