Pagina 69: “Sul soffitto” di Éric Chevillard

Sul soffitto è un romanzo dell’autore francese Éric Chevillard scritto nel 1997 e pubblicato nel 2015 in Italia da Del Vecchio con una traduzione di Gianmaria Finardi, che ha compiuto un’opera coraggiosissima. Il testo, infatti, penso che avrebbe fatto impazzire chiunque, perché stiamo parlando di un libro complicato sotto tutti i punti di vista. Il linguaggio è particolare, la narrazione, in prima persona, è piena di voli pindarici, di frasi che s’interrompono per seguire il pensiero di chi parla, di sperimentazioni.

La storia, invece, è ancora più particolare: il protagonista da piccolo, su consiglio del medico, ha iniziato a tenere una sedia sulla testa per correggere la sua tendenza a stare curvo, e poi da lì è arrivato all’età adulta sempre con la sua sedia addosso. Metafora della diversità, quest’uomo si sente, appunto, diverso dagli altri, ma migliore di loro, e così conosce altre persone che sono altrettanto stravaganti a modo loro: un ex gruista, una donna che racconta fiabe ai suoi bambini mai nati che continuano a crescerle dentro, e altre varietà umane. Ma la sua stravaganza non impedisce al protagonista di condurre una vita normale. Egli infatti riesce perfino a trovarsi una fidanzata, Méline, che lo accetta per com’è, pure quando negli incontri fisici lui vuole tenersi sempre la sua sedia sulla testa. Ed è proprio Méline che, all’insaputa della sua famiglia, ospita la comunità di persone stravaganti nella sua casa, ma con una particolarità: questi sette individui vivono sul soffitto, a testa in giù, ché tanto poi il sangue arriva anche meglio al cervello. Esattamente come nella copertina, tanto che il lettore è portato ad acchiappare il libro tutte le volte al contrario.

Odio dirlo, perché è una frase fatta e sa di lettore snob, però qua bisogna ribadirlo per forza come avvertenza: non è un libro per tutti, si può cadere facilmente nella confusione e ci si può perdere, nonostante il libro non sia un volumone. Però ne vale la pena, perché capirete di non aver mai letto nulla del genere, è spiazzante, quindi se siete appassionati di tutto ciò che è “diverso” dall’ordinario Sul soffitto fa decisamente per voi.
Io comunque vi lascio un assaggino per farvi un’idea, ma siccome mi è risultato impossibile prenderlo da pagina 69 (perché avrei tagliato a metà una frase lunghissima senza un punto) è un estratto a metà tra pagina 68 e 69. Buona lettura!

IMG_20160625_121555Una precisazione necessaria: non sono per niente soggetto a manie di persecuzione, credo che i rondoni non siano incaricati di sorvegliarmi, che il Sole non sia un proiettore puntato sulla mia persona, che non sia perché pensa a me che la tigre ha fame, piuttosto soffrirei di questa indifferenza della natura nei miei confronti, e delle cose stesse che non afferrano mai la mano che tendo loro, ma sembrerebbe, al di là dei dissidi irriducibili che alterano i rapporti fra gli uomini, che l’accordo sia stato raggiunto su un punto, con una bella unanimità tanto improbabile, attorno a me, contro di me, tacitamente, che sia in verità un dovere per ognuno applicarsi a rovinare la mia tranquillità, il solo ideale che unisca, rovinare la mia tranquillità, l’opera comune che suggella la riconciliazione tra i popoli, tra i sessi, tra le età, l’ingiunzione irresistibile, l’unica legge senza oppositore né contraddittore, come se questa fosse proprio la condizione prima di qualsivoglia progresso, innanzitutto rovinare la mia tranquillità, impresa per cui i volontari non sono mai mancati, molto numerosi e zelanti, non retribuiti, alla quale si sono dedicati anima e corpo, e di buon cuore da sempre, con successo, devo riconoscerlo, e il cui accanimento non si allenta, anzi poiché la Forza Pubblica se ne immischia ora come se la sua missione di mantenimento dell’ordine le imponesse tanto per cominciare di rovinare la mia tranquillità, come se il mondo non dovesse conoscere alcun riposo finché mi godessi anch’io la tranquillità.

“Sul soffitto”, Éric Chevillard, 1997
trad. Gianmaria Finardi, Del Vecchio, 2015,
144 pp., 14 €


Éric Chevillard – Nato nel 1964 a La Roche–sur–Yon, è uno dei più interessanti e originali scrittori francesi. Ha ideato il blog letterario L’Autofictif, molto seguito e discusso in Francia. Ha scritto moltissimi romanzi, tra cui i più famosi sono Mourir m’enrhume, 1987; Le Caoutchouc décidément, 1992; La Nébuleuse du crabe, 1993; Le Vaillant petit tailleur, 2004; Démolir Nisard, 2006; Sans l’orang–outan, 2007; Dino Egger, 2011; Le Désordre azerty, 2014, aggiudicandosi numerosi premi, tra cui il PRIX FÉNÉON, il PRIX WEPLER, il PRIX ROGER–CAILLOIS, il PRIX VIRILO e il PRIX ALEXANDRE–VIALATTE. Nel 2013, inoltre, la traduzione di uno dei suoi primi romanzi, Préhistoire (1994; Prehistoric Times), si è aggiudicata il BEST TRANSLATED BOOK AWARD, premio statunitense assegnato dalla rivista «Open Letters» e dall’università di Rochester. Quasi tutti i romanzi sono pubblicati, in Francia, dalla casa editrice Minuit, famosa per la sua attenzione agli autori di letteratura sperimentale.

Pagina 69: “Grandi speranze”

Ho letto Grandi Speranze di Charles Dickens qualche settimana fa e – magari può sembrare una bestemmia – non l’ho apprezzato. C’è da mettere in conto che sicuramente ho scelto un’edizione sbagliata, la Newton&Compton, ma mi è stato regalato e per non fare la schizzinosa ho letto quello che avevo. I caratteri sono troppo piccoli, trattandosi di un Minimammut, hanno cercato di fare un volume piccolo e compatto che sicuramente non è adatto a chi non ci vede bene o a chi è astigmatico (e si rifiuta di mettere gli occhiali) e fa fatica dopo un po’. Confesso di non amare troppo questo editore, sono convinta che dove i prezzi siano più bassi anche il livello qualitativo scenda parecchio. Ma la storia è quella e, messe da parte cura, traduzione, impaginazione e chi più ne ha più ne metta, la vicenda non mi ha conquistata.

Il protagonista è Pip, un ragazzino orfano che viene allevato dalla sua isterica sorella e dal marito. Quando è ancora piccolo gli capita di conoscere due persone che segneranno la sua vita: Abel Magwitch, un criminale fuggito dalla galera, e Miss Havisham, una strana vecchia signora molto ricca. Qualcuno ha “grandi speranze” per lui, vuole educarlo ad essere un giovanotto istruito e ricco, ma chi sarà? E a cosa dovrà rinunciare per questo? Dickens ci accompagna per le strade di Londra e dintorni, tenendoci quasi per mano in questo viaggio tra la sporcizia e le bassezze delle classi inferiori e le stranezze dei ricchi, senza mai dimenticare che in tutti c’è del buono. Pip si ritroverà cieco davanti ai casi della vita, ma imparerà tantissime cose importanti.

Dato che non l’ho apprezzato molto, ho scelto comunque di parlarvene riportando qui la pagina numero 69. Buona lettura!

Grandi speranze di Charles Dickens

11896192_1652735578273362_2195379939018969796_nLa stessa occasione mi servì per notare che Mr. Pumblechook sembrava sbrigare i suoi affari guardando, dall’altra parte della strada, il sellaio, il quale sembrava trattare i suoi affari tenendo d’occhio il costruttore di carrozze, che sembrava tirare avanti nella vita mettendosi le mani in tasca e osservando il fornaio, che a sua volta incrociava le braccia e fissava il droghiere, che se ne stava sulla porta e sbadigliava al farmacista. L’orologiaio, sempre diligentemente curvo su un tavolinetto con una lente d’ingrandimento all’occhio, e sempre sorvegliato da un gruppo di contadini che lo osservava diligentemente attraverso la vetrina del suo negozio, sembrava essere l’unica persona, sulla via principale, la cui attenzione fosse impegnata nella propria attività.
Io e Mr. Pumblechook facemmo colazione, alle otto, nel salottino situato nel retrobottega, mentre il commesso beveva la sua tazza di tè e mangiava il suo pezzo di pane e burro su un sacco di piselli nella parte anteriore del locale. Giudicai Mr. Pumblechook una compagnia deprimente. Oltre a essere posseduto dalla stessa idea di mia sorella, secondo la quale si doveva imporre un carattere mortificatorio e penitenziale alla mia dieta – oltre a darmi il più possibile di crosta insieme al meno possibile di burro, e a mettere talmente tanta acqua calda nel mio latte che sarebbe stato più onesto fare del tutto a meno del latte – la sua conversazione non consisteva di altro che di aritmetica. Quando io gli augurai educatamente il buon giorno, egli disse pomposamente: «Sette per nove, ragazzo!». E come avrei potuto essere in grado di rispondere, preso a tradimento in quel modo, in un luogo estraneo, a stomaco vuoto! Avevo fame, ma prima che avessi ingoiato un solo boccone, egli cominciò una serie di somme che si protrassero per tutta la durata della colazione. «Sette?» «E quattro?» «E otto?» «E sei?» «E due?» «E dieci?». E così via. E dopo che ogni numero era stato sistemato, avevo a malapena il tempo di dare un morso o di bere un sorso prima che arrivasse il seguente; mentre lui se ne stava seduto comodamente, senza dover indovinare niente, e mangiando avidamente la pancetta col suo panino caldo e (se mi si permette l’espressione) rimpinzandosi e ingozzandosi a più non posso.
Per tutti questi motivi fui molto felice quando arrivarono le dieci e ci avviammo verso la casa di Miss Havisham, anche se non mi sentivo affatto tranquillo sul modo in cui avrei dovuto comportarmi sotto il tetto di quella signora. In un quarto d’ora arrivammo alla casa di Miss Havisham, che era tutta costruita in vecchi mattoni, e lugubre, e circondata da molte sbarre di ferro. Alcune finestre erano state murate; delle rimanenti, tutte quelle più basse erano chiuse da sbarre arrugginite.

“Grandi speranze” di Charles Dickens
trad. Maria Felicita Melchiorri
Newton&Compton, ed. 2014

Pagina 69: “La morte a Venezia”

Questo libro l’ho letto una decina di giorni fa, ma purtroppo non mi ha colpito molto. Di conseguenza – lo confesso – vi propongo la pagina 69 perché non mi è rimasto quasi nulla da dire, ho dimenticato un bel po’ di cose, ma non voglio che passi inosservato.
La storia, in poche parole, è questa: Gustav von Aschenbach è un autore cinquantenne che ha avuto molti riconoscimenti per la sua arte; rimasto vedovo gli viene voglia di viaggiare e prendersi una vacanza anche per migliorare la sua salute. Mentre si sta recando in un luogo sulla costa dell’Istria, gli viene una folgorazione e capisce che in realtà vuole andare a Venezia, dove prenderà una suite in un hotel al lido dell’isola di Venezia. Lì la sua attenzione viene attirata da un giovanotto di quattordici anni vestito alla marinara di nome Tadzio. Questo ragazzo è bellissimo e i suoi lineamenti richiamano quelli delle sculture greche, dell’arte classica e pura a cui Aschenbach si è sempre dedicato. Da qui, l’uomo sembra quasi impazzire di fronte al giovane, si rende conto di avere degli impulsi omosessuali che non aveva mai considerato, s’innamora e arriva a confessare a se stesso il suo amore per Tadzio. Ma questo sentimento arriverà a consumarlo.

Devo dirvi che non ho capito se il protagonista si fosse innamorato del ragazzino in sé, e quindi avesse impulsi omosessuali, o se in realtà fosse innamorato della bellezza nel suo senso più puro. Per vederci più chiaro ho iniziato a vedere il film di Luchino Visconti del 1971, ma ho dovuto spegnere dopo venti minuti perché era una tortura. Quasi due ore di film basati sul nulla: sguardi, occhiate, sussulti, sguardi, sussulti, occhiate… Due ore di film costruite su un racconto di circa 80 pagine. Ci ho rinunciato.
Come ho già detto, invece, il racconto lungo l’ho letto tutto, ma non mi ha lasciato niente. Voi che mi dite? L’avete letto?

La morte a Venezia di Thomas Mann

Fin dal pomeriggio dell’indomani egli compì, caparbio, un nuovo tentativo di forzare il mondo esteriore, e questa volta con pieno successo. Recatosi in Piazza San Marco, entrò nell’agenzia turistica inglese che là aveva sede, e cambiata una somma di denaro alla cassa, rivolse, col tono del forestiero diffidente, la fatale domanda all’impiegato che lo aveva servito. Era costui un inglese ancor giovane, vestito di lana, con la scriminatura nel mezzo e gli occhi ravvicinati; spirava quel senso di tranquilla franchezza che riesce così strano, così diverso in mezzo alla mariolesca agilità dei paesi del Sud.
«Non c’è ragione d’inquietarsi, Sir» cominciò: «una misura di nessuna gravità, provvedimenti come se ne prendono spesso per prevenire eventuali difetti antigienici del caldo e dello scirocco…». A questo punto alzò gli occhi azzurri e incontrò lo sguardo dello straniero: uno sguardo stanco e un po’ triste, diretto, con una sfumatura di disprezzo, alle sue labbra. L’inglese arrossì: «Questa» continuò a mezza voce e un po’ concitato «è la spiegazione ufficiale, quella su cui le autorità del luogo credono bene insistere. Ma, le dirò, c’è sotto qualcosa di diverso». Allora, nella sua piana lingua senza malizia, disse la verità.

Già da parecchi anni il colera asiatico aveva mostrano un’accentuata tendenza a diffondersi anche fuori della sua terra d’origine. Nato nei caldi acquitrini del delta del Gange, rinfocolato dall’alito mefitico di quel mondo primordiale e vanamente sontuoso – di quell’intrico d’isole selvagge che gli uomini disertano e dove, nei folti di bambù, s’appostano le tigri – il flagello aveva imperversato senza sosta e con eccezionale violenza su tutto l’Indostan, era penetrato a oriente in Cina, a occidente nell’Afghanistan e in Persia, e di qui, imboccate le grandi strade delle carovane, aveva portato i suoi orrori fino ad Astrachan e nella stessa Mosca. Ma mentre l’Europa sgomenta si aspettava che il morbo l’invadesse da quella parte, per via di terra, lo spettro invece aveva fatto la sua comparsa in vari porti mediterranei, attraversando il mare su navi mercantili di Siria; aveva alzato la testa a Tolone e a Malaga, mostrato più volte la sua grinta a Palermo e a Napoli, e già pareva non voler più staccarsi da tutte le Calabrie e le Puglie.

“La morte a Venezia” di Thomas Mann,
trad. Emilio Castellani,
Mondadori editore, ed. 1988

Pagina 69: “Qualcuno con cui correre”

Il libro di cui vi ho parlato lunedì, Qualcuno con cui correre di David Grossman, mi è piaciuto così tanto che vi ho voluto dedicare tutta questa settimana, fornendovi adesso la pagina 69, in cui Assaf è arrivato alla torre dove abita Teodora e parla con lei di Tamar.

Vi ho già detto praticamente tutto di questo romanzo, quindi adesso mi limito a lasciarvi assaporare questa paginetta.

Buona lettura!

Qualcuno con cui correre di David Grossman

WP_004382«Il gigante aveva un grande giardino con tantissimi alberi da frutta. C’erano albicocchi e peri, peschi e aranci, fichi, ciliegi e limoni».
Teodora aveva passato in rassegna i suoi alberi. La voce della ragazza le piaceva, non tradiva ostilità, al contrario, era una sorta di invito al dialogo e lei se ne era resa conto. Parlava come se stesse raccontando una favola a un bambino, e la sua voce tenera e rilassante era penetrata nei recessi della memoria della suora, propagandosi a ondate.
«Ai bambini del villaggio piaceva giocare nel giardino del gigante» aveva proseguito la ragazza, «arrampicarsi sugli alberi, fare il bagno nel ruscello, rincorrersi nei prati… Mi scusi, signora suora, non le ho nemmeno chiesto se capisce l’ebraico».
Teodora si era riscossa dalla sua dolce fantasticheria. Aveva preso un foglio dalla scrivania, lo aveva arrotolato così da formare a sua volta un piccolo megafono, e con una voce un po’ chioccia, poiché da anni non si cimentava in una conversazione ad alta voce, aveva informato la giovane che lei parlava, scriveva e leggeva molto bene l’ebraico, appreso in gioventù dal signor Eliassaf, insegnante della scuola Tachkamoni, il quale, per incrementare le entrate, dava lezioni private chiunque richiedesse i suoi servigi. Al termine di quel breve ma dettagliato discorso le era sembrato di intravedere un primo, timido sorriso negli occhi della sua interlocutrice.
«Tu non l’hai mai vista sorridere» bisbigliò Teodora ad Assaf, «ha una fossetta qui». Gli sfiorò la guancia e lui ne rimase turbato, come se avesse percepito il calore di Tamar, con la quale, in fondo, non aveva nulla a che spartire. Che c’entrava lui con la sua fossetta? In cuor suo Teodora pensò: “Sei arrossito, signorino mio!” e ad alta voce disse: «Il cuore palpita e spicca il volo quando lei sorride. No, non ridere! Io non esagero mai! Il cuore spicca il volo battendo le ali!».

“Qualcuno con cui correre” di David Grossman
trad. Alessandra Shomroni,
Mondadori editore, ed. 2001,
362 pagine