L’Opera Galleggiante | John Barth

Una cosa che mi piace molto è quando, mentre leggi un libro, trovi uno spunto, un suggerimento per un altro titolo. Quando ho letto L’amore a vent’anni di Giorgio Biferali veniva citato L’Opera Galleggiante di John Barth, un romanzo che sono andata a cercare immediatamente su Google e che mi sono segnata in lista. Poi l’ho comprato e me lo sono letto nei giorni passati, godendomelo per bene senza fretta, e vi devo confessare che per me è stato una scoperta incredibile, cominciando dal fatto che non conoscevo l’autore, che invece in America è uno degli scrittori più importanti e, in pratica, il fondatore della narrativa postmoderna. A ispirarmi è stata la trama, una roba potenzialmente “allegra”, come al mio solito. Todd Andrews nel giugno del 1937 è un brillante avvocato, conduce una vita borghese nel Maryland e si intrattiene ogni tanto con Jane, la moglie del suo caro amico Harrison Mack (fautore del ménage à trois), erede di una grossa azienda di sottaceti. Quel particolare giorno – il 21? Non se lo ricorda bene – si alza e capisce che la risposta a tutto è il suicidio, quindi quello sarà il suo ultimo giorno sul pianeta. Però qualcosa non funziona e cambia idea, così vent’anni dopo in questa Opera ci spiega i motivi per cui quel giorno non ha messo fine alla sua vita.

La storia raccontata in questo libro, che rappresenta l’esordio letterario di Barth ma anche il suo capolavoro, si articola in una sola giornata, da quando Todd si alza la mattina a quando va a dormire la sera; viene narrato tutto quello che in quel particolare giorno gli è capitato. Ma il tempo si dilata, perché ci sono sempre premesse da fare, flashback, chiarimenti, salti avanti e indietro, così spesso da far sì che le digressioni siano più dei fatti della giornata fatale. A un certo punto il lettore potrebbe aspettarsi di “sentirsi dire” dal narratore che quello che gli ha appena detto non c’entri niente con quella storia, o potrebbe temere di continuo di perdere il filo, ma non succede mai. È sempre tutto orchestrato alla perfezione.

È un’opera galleggiante, amici, piena zeppa di curiosità, di melodramma, di spettacolo, di istruzione e di divertimento, ma scorre via volente o nolente secondo la marea della mia prosa vagante: l’avvisterete, poi la perderete di vista, poi la rivedrete; e senza dubbio vi ci vorranno grandissimi sforzi di attenzione e di fantasia – insieme a non poca pazienza, se siete lettori comuni – per non perdere di vista la trama mentre vi naviga sotto gli occhi e poi vi sfugge alla vista.

Nel primo capitolo, che si intitola Accordando il mio pianoforte, Todd-Barth fa delle premesse importanti. Innanzitutto ne approfitta per presentarsi, per spiegarci chi è, perché non gli piace entrare direttamente nel vivo della situazione, ma pensa che si debba fare un piccolo passo alla volta, costruire un racconto in modo graduale. Ci dice che è un avvocato, che vive in al Dorset Hotel dove paga il conto ogni giorno, che ha una relazione con la moglie del suo migliore amico, e che ha sofferto solo di una grave prostatite anni prima e ora l’unico suo problema è un difettuccio al cuore che potrebbe ucciderlo in qualsiasi momento. Ma ci racconta anche che ha dato quel nome alla sua storia perché il 21 giugno del 1937 (è quasi sicuro che sia stato quel giorno, ma potrebbe essere il 22, chissà) perché gli è capitato di salire su uno showboat chiamato L’Unica e Inimitabile Opera Galleggiante di Adam. Ed ecco che Barth si lancia nella metanarrazione: Todd sta scrivendo un’opera che prende il nome da un’imbarcazione su cui è messo in scena uno spettacolo teatrale. Ma non è finita qui, perché nel corso del libro, Todd spiega anche che da tantissimi anni sta scrivendo un’Indagine, di cui raccoglie numerosi appunti – che mette continuamente in ordine in delle cassette da frutta – volta a capire le cause del suicidio del padre; indagine che, però, finisce per diventare una riflessione anche su sé stesso, sul rapporto col genitore e sulle ragioni per farla finita.

In partenza, L’opera Galleggiante non ha niente di speciale, non c’è un mistero da risolvere dato che già sappiamo come andrà a finire: Todd è ancora vivo, non si è suicidato, altrimenti non sarebbe qui a raccontarcelo. La bellezza di questo libro sta nel modo in cui il protagonista narratore ci parla di sé e della sua disillusione, del suo profondo cinismo che quasi spinge un altro a suicidarsi (che sia anche questo che lo fa desistere dal compiere il gesto?), di come anche lui galleggi: non c’è niente di particolarmente esaltante nella sua vita, ma quando pensa di farla finita cambia idea e continua a rimanere a galla senza andare a fondo.
È un romanzo che a circa cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione è sempre un capolavoro e che stupisce per l’intensità. E io l’ho trovato geniale, nello stile così curato, nell’introspezione, nell’esplorazione dei conflitti interiori di Todd, nel fatto che il protagonista non sia ammantato da un’aura tragica ma che, anzi, sia perfettamente lucido e padrone di sé. E soprattutto nel modo di raccontare, ad esempio quando divide la narrazione in due colonne differenti perché a ciò che si appresta a dire vuole anteporre due premesse necessarie fatte da punti di vista differenti ma egualmente importanti, che vanno lette insieme (se ce la fate siete eroi).

Oggi vi ho parlato di un gran libro, segnatevelo.
Buona lettura!

Titolo: L’Opera Galleggiante
Autore: John Barth
Traduttore: Martina Testa / Henry Furst
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 1967 (2018 questa edizione)
Pagine: 368
Prezzo: 15 €
Editore: minimum fax

In breve: “Perdersi” di Charles D’Ambrosio

In un certo senso abbiamo davvero una storia
solo nel momento in cui è condivisa,

e di fatto troppa unicità conduce dall’individualità all’anonimato,
all’enorme mare dei dimenticati.

 

Perdersi è un libro che volevo acquistare fin da quando è uscito e non vi nascondo che la sua grande parte l’aveva fatta la copertina, che secondo me è bellissima. Poi ho saputo che Charles D’Ambrosio, nel suo tour italiano, sarebbe venuto proprio qui a Palermo alla libreria Modusvivendi a presentarlo e quindi ho colto la palla al balzo: l’ho comprato e divorato perché volevo farcela in tempo per l’incontro.
Si tratta di una raccolta di saggi che però hanno qualcosa anche del racconto, sono testi che secondo me stanno a metà tra questi due generi. D’Ambrosio scrive di vari argomenti e lo fa senza la rigidità tipica del saggio: ha uno stile fluido, leggero, molto personale, che ti fa venire in mente che quel testo sia un dialogo tra l’autore e te che stai leggendo. Non si preoccupa di essere accademico o di mantenere un certo tipo di linguaggio, vuole raccontarti la realtà per come la vede lui, vuole farti sapere quello che lui stesso ha visto, sentito e provato. E a questo proposito – è emerso anche durante l’incontro in libreria – ciò che emerge è anche l’importanza dei suoni: descrive ciò che sente per darci la possibilità di entrare completamente nella storia, per permetterci di ricreare nella nostra mente quella determinata situazione in cui lui si è trovato precedentemente. Ma non solo suoni; anche odori, cose viste, toccate. L’importanza dei dettagli in generale. Details matter, ha detto. L’importante è parlare di cose verosimili e dare al lettore l’idea giusta, mettersi nei panni di chi sta leggendo per capire se quel pezzo suona bene, perché in caso contrario bisogna tagliare e rielaborare.

Scoprii in fretta che la miglior fonte di consigli senza la morale era la buona letteratura. Capii subito che certe storie osservavano le vite umane in maniera diretta e coraggiosa, senza criticarle o condannarle.

D’Ambrosio, durante l’incontro, ha parlato in generale della sua produzione e degli altri racconti pubblicati da minimum fax, nello specifico Il museo dei pesci morti, che mi procurerò quanto prima. Ma per quanto riguarda i saggi, raccolti in Perdersi, ha detto che è un genere perfetto per esprimere più idee, anche se in contraddizione fra loro, dal momento che non dovendo seguire una trama, una storia, puoi esporre più punti di vista su una stessa questione.
Fra questi saggi, quello che mi ha emozionato di più è stato Salinger e Singhiozzi, il primo della terza parte, in cui tra le altre cose parla de Il giovane Holden, dell’accostamento fra questo romanzo e il tema del suicidio (che poi lo collega a questioni familiari) e della perdita di identità più in generale. Forse devo questa preferenza al mio amore spassionato per questo libro, che ho già letto tre volte a tre età diverse provando sempre sensazioni nuove, motivo per cui tre non mi basteranno, ci saranno nuove riletture.

In generale, Charles D’Ambrosio ha uno stile che coinvolge chiunque stia leggendo perché è come se portasse sul piano personale ogni argomento di cui parla. Dentro ogni saggio, prima di tutto il resto, c’è lui, c’è la sua esperienza, ci sono i suoi ricordi.
Da centellinare. Buona lettura!

Io mentre D’Ambrosio mi firma la dedica (foto di Fabrizio Piazza della Modusvivendi)

Titolo: Perdersi
Autore: Charles D’Ambrosio
Traduttore: Martina Testa
Genere:
 Saggistica
Anno di pubblicazione:
 2014 (2016 con questo editore)
Pagine: 312
Prezzo: 18 €
Editore: minimum fax

Giudizio personale: spienaspienaspienaspiena

“Senza pelle” di Nell Zink

Gli uccelli sono più coraggiosi degli altri animali,
perché hanno un asso nella manica: il volo.

 

IMG_20160706_174040Tiffany e Stephen sono due americani che poco dopo essersi incontrati decidono di sposarsi, perché credono di aver trovato la persona giusta con cui passare la vita, quella da non lasciarsi scappare. In realtà si conoscono davvero poco, a parte qualcosa di generico. Dopo il matrimonio si trasferiscono a Berna e poi a Berlino; in Europa la vita di Tiffany cambia radicalmente soprattutto dopo un incidente d’auto: era incinta e adesso ha perso il bambino. A Berlino Stephen e Tiffany si trovano catapultati in un mondo nuovo, è una città cosmopolita che permette specialmente alla donna di cambiare pelle ed esprimersi in tutta libertà. Così, tra relazioni extraconiugali e nuove conoscenze, Tiffany cerca di uscire dalla sua pigrizia, dalla svogliatezza innata che l’ha sempre contraddistinta (trova un lavoro, ma non dura molto perché in realtà non le va a genio) per trovare il suo scopo nella vita, qualcosa che le dia soddisfazione, mentre il marito si dedica completamente ai suoi interessi: il birdwatching, la musica e l’attivismo politico per le cause ambientali.

Sicuramente i protagonisti si sono sposati troppo presto e per supplire alla mancanza di confidenza entrambi si tuffano in relazioni con altre persone, ma in tutta tranquillità, alla luce del sole. Tiffany scopre che Stephen è un egoista, un maniaco del controllo, un uomo che in molte cose vuole avere potere decisionale e che la disgusta, e lei è convinta che essere una buona moglie significhi compiacerlo. Sembra che il bambino che portava in grembo facesse da collante tra questo marito e questa moglie, ma adesso che lo hanno perso i due seguono percorsi separati. Tiffany trova la sua dimensione quando conosce Elvis, un ragazzo che la fa sentire donna e che (almeno così dice) è davvero innamorato di lei; ma anche lui è abbastanza stravagante e pieno di problemi.

Stephen è appassionato di birdwatching, questo Tiff lo sa da sempre, e in tutto il libro di uccelli si parla moltissimo. Nello specifico c’è un continuo paragone tra questi animali e gli esseri umani, un paragone che a volte è sottinteso ma che più spesso viene esplicitato:

Gli uccelli erano la sfera intima di Stephen. Con loro non doveva essere fico o spassoso e nemmeno allettante. «Riprodursi e nutrirsi», così Stephen definiva la loro vita, facendoli somigliare più a dei mangioni erotomani (cioè a degli esseri umani) che alle orgiastiche e leggiadre creature stagionali che erano in realtà.

E sono proprio gli uccelli che insegnano a Tiff il giusto modo di vivere, da loro apprende il concetto di libertà, si crea un suo personale concetto di amore:

Io li vedevo in un altro modo, gli uccelli. Pensavo piuttosto a due anatre, tra le quali vige la fedeltà di coppia. Cosa avrebbero fatto se i cacciatori le avessero intrappolate? Li avrebbero affrontati tenendosi per mano? Ma nemmeno per sogno. Si sarebbero separate, ognuna in una direzione diversa. L’anatra colpita avrebbe usato le ultime forze per guardare il compagno di una vita e quello avrebbe scosso il capo come per dire: «Stai zitta, per favore. Non fare la spia solo perché stai morendo». E l’amore avrebbe trionfato.

In Senza pelle, romanzo di Nell Zink del 2014 pubblicato da minimum fax in Italia ad aprile 2016, non c’è, però, solo la storia di una coppia e del paragone tra umani e uccelli. C’è molto di più. Ci si accorge, leggendolo, che non è un romanzo convenzionale e soprattutto che non è semplice. Si possono rintracciare aspre critiche al mondo umano e al nostro rapporto con l’ambiente, si parla tanto di attivismo politico e di problemi ambientali, cose, insomma, molto attuali e che ci riguardano. Ma la cosa positiva del libro, il suo punto di forza, è che questi argomenti che hanno maggior spessore non hanno il sopravvento su quelli più leggeri (amore, uccelli, considerazioni sulla vita), e quindi la storia non risulta pesante, si evita di cadere nel romanzo prettamente politico ma evitando la banalità. Un mix perfetto, quindi.
Nonostante questi temi importanti, la scrittura di Nell Zink, grazie anche alla traduttrice Anna Mioni, è fluida, il libro si legge molto rapidamente e poi la storia coinvolge tanto, ci vuole un attimo ad immedesimarsi completamente nel personaggio di Tiffany. Devo dire che Senza pelle non l’ho comprato tanto per la trama, ma perché trovo che abbia una copertina bellissima (ultimamente non so che cosa mi stia succedendo, compro libri perché mi piace la copertina, mai successo!). E voi?

Titolo: Senza pelle
Autore: Nell Zink
Traduzione:
 Anna Mioni
Genere:
 Romanzo
Anno di pubblicazione:
 2014 (2016 questa edizione)
Prezzo: 16 €
Editore: minimum fax
Giudizio personale: spienaspienaspienaspienasvuota

“La sorella cattiva” di Véronique Ovaldé

11062714_10207815306212007_7374617527551854362_oLa sorella cattiva di Véronique Ovaldé è un altro libro che l’hanno scorso ha riscosso un grandissimo successo e a cui, quindi, io sono arrivata quando è scemata l’euforia collettiva. In realtà, di norma, non sono una persona che va troppo dietro alle ultime uscite o che si lascia trascinare troppo dall’entusiasmo altrui, quindi quando un libro m’intriga mi appunto il titolo sul mio taccuino/wishlist consapevole che sarà questione di tempo prima che quel libro mi trovi. E infatti si è presentata l’occasione: la Ovaldé mi ha trovata e io me la sono letta.

Maria Cristina Väätonen quando aveva diciassette anni approfittò di una borsa di studio per lasciare il suo paesino sperduto tra i boschi del Canada e trasferirsi negli Stati Uniti, scappando da una casa rosa culo dove abitava con una madre bigotta, un padre cronicamente infelice (leggi depresso) e una sorella rimasta all’età mentale di quattordici anni. Oggi Maria Cristina vive a Santa Monica ed è diventata una scrittrice, dopo aver lavorato come assistente del famoso scrittore Rafael Claramunt (con cui ha avuto una storia) e aver lanciato il suo primo romanzo che parla di ciò che ha vissuto in Canada. È lei la sorella cattiva, in quanto è responsabile dello stato mentale della sorella Meena: quando erano adolescenti, M. C. (come la chiama oggi la sua amica Joanne) si è fatta accompagnare da Meena a guardare dei serpenti, ma quella si è spaventata così tanto che è corsa via e ha avuto un incidente che l’ha costretta a rimanere per sempre, dentro di sé, una ragazzina. Un giorno, dopo anni, la madre le chiede di tornare per occuparsi del figlio di Meena e, nonostante in un primo momento lei voglia rifiutare, alla fine accetta e si reca al suo paese natale. Maria Cristina tornerà a fare i conti con una realtà che aveva abbandonato e una vita che le stava troppo stretta, e dovrà tenere a bada i sensi di colpa che hanno fatto di lei una sorella cattiva.

Il libro è una sorta di biografia di Maria Cristina, l’autrice parla di lei come se stesse scrivendo una sorta di documentario. Ci narra di come è arrivata negli Stati Uniti, di ciò che ha dovuto patire a casa sua per colpa di una madre per la quale anche depilarsi le gambe significava inneggiare al diavolo, e di come ha iniziato a conoscere il mondo grazie ad un mentore/seduttore di diversi anni più grande di lei. Ma nessuno può entrare nell’intimo di un personaggio più del personaggio stesso, quindi, essendo una biografia e non un’autobiografia, non riusciamo a svelare i misteri del suo animo, ci fermiamo fino ad un certo punto. Che non è la superficie, perché comunque la Ovaldé scava abbastanza in profondità, ma non fino in fondo.

La storia non viene raccontata in maniera continua dall’inizio alla fine, ma ci troviamo di fronte a spezzoni che non sempre sono messi in ordine cronologico. Ma ciò che forse conta davvero non sono le vicende raccontate nei capitoli, ma quanto non viene detto, quanto sta negli spazi vuoti tra un evento e l’altro. Il fatto che Maria Cristina abbia dentro di sé questo terribile senso di colpa per ciò che ha provocato alla sorella non viene ribadito continuamente, ma l’autrice ce lo fa percepire in ogni momento, ci fa capire che ovunque la protagonista si trovi e qualsiasi cosa stia facendo si comporta come una persona segnata da qualcosa di terribile che le è accaduto molto tempo prima. Quando conosce Claramunt e lui la seduce, quando va a vivere con la stravagante Joanne, quando scrive il suo primo romanzo (soprattutto!), Maria Cristina appare come una persona che avanza con il freno inserito, un piccolo freno che probabilmente lei mette per evitare di creare altri problemi.

Se in un primo momento La sorella cattiva non mi ha entusiasmato, devo dire che piano piano sono riuscita ad entrare nel meccanismo della narrazione di Véronique Ovaldé. Mi sono resa conto che dietro tutti gli eventi, dietro tutti i personaggi che incrociano il suo cammino, c’è sempre la piccola Maria Cristina. Nonostante sia cresciuta e abbia conosciuto il mondo – come mai avrebbe potuto dal suo paesino canadese – forse anche lei è rimasta all’età che aveva quando Meena ebbe l’incidente: adesso è una donna, ma anche quando si mostra forte e dura, si percepisce sempre quella fragilità e quello spaesamento di una ragazzina che lascia la sua casa rosa culo per affrontare il resto del mondo.

Buona lettura!

Titolo: La sorella cattiva
Autore: Véronique Ovaldé
Traduzione:
 Lorenza Pieri
Genere:
 Romanzo
Anno di pubblicazione:
 2015
Pagine: 265
Prezzo: 15 €
Editore: minimum fax – Leggi un assaggio del libro

Giudizio personale: spienaspienaspienaspienasvuota


Véronique Ovaldé (1972) è autrice di romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui Stanare l’animale, E il mio cuore trasparente e Gli uomini in generale mi piacciono molto, pubblicati in Italia da minimum fax, e Quello che so di Vera Candida e Vivere come gli uccelli, usciti per Ponte alle Grazie.