Tu l’hai detto | Connie Palmen

Uno di noi era spacciato fin dall’inizio. Era o lei o io.
Nella furia divoratrice chiamata amore,
avevo trovato la mia pari.

 

Sono sempre stata attratta dagli animi tormentati, specialmente in letteratura, e non saprei dire per quale motivo. Forse perché penso che questo tormento derivi da quello che Pessoa definiva “il peso del sentire, il peso del dover sentire”, cioè dal fatto che – ne sono sicura – quando si percepisce troppo, quando si sente ciò che molti altri non arrivano neanche a immaginare, irrimediabilmente si finisce per soffrire. Una figura per cui provo una grande curiosità, infatti, è Sylvia Plath, di cui ho davvero letto pochissimo, ma quel poco che è bastato a farmi innamorare di lei. Quindi, quando ho saputo che Iperborea avrebbe pubblicato un volume che parlava di lei, mi sono subito messa in testa che dovevo leggerlo a tutti i costi.

Il 12 aprile è uscito, con una traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Tu l’hai detto di Connie Palmen, vincitore nel 2016 del Premio Libris, il più importante riconoscimento letterario olandese. Si tratta di un’autobiografia fittizia in cui Ted Hughes racconta il suo difficile rapporto con la Plath, una cosa che nella realtà Hughes non ha mai fatto, dato che l’unica biografia su di lui l’ha scritta Elaine Feinstein nel 2001. E forse è proprio per il fatto che il poeta inglese non ha mai parlato del suicidio di Sylvia a soli trent’anni che è stato considerato il carnefice della giovane martire. La Palmen, però, dà voce a quest’uomo che sembra non abbia mai smesso di interrogarsi sulle sue colpe e che, anzi, vuole raccontare di com’è stata magnifica e allo stesso tempo dura la vita con la bellissima, esuberante, tormentata moglie americana.

Hughes compie un viaggio a ritroso nella memoria, partendo dal primo incontro con Sylvia, quando erano poco più che ventenni. Rimane affascinato da questa ragazza così arguta, spumeggiante ma a volte tetra e problematica. Si rende conto che dietro questo carattere che sembra così forte e aggressivo si cela una bambina dall’anima di vetro che è piena di paure, incubi, che sente continuamente su di sé il peso delle aspettative (il dover essere importante e famosa), di una madre asfissiante e di un padre, morto da tempo, che la aspetta nell’aldilà. La Plath aveva già tentato una volta il suicidio, più avanti ha consultato psichiatri, ma non è mai uscita dalla spirale di dolore nella quale era caduta. Hughes l’ha amata moltissimo, ha avuto due figli da lei, le ha dato tutto se stesso ma alla fine non è più riuscito a sostenere questo legame incredibile e insieme distruttivo, quindi si è lasciato trasportare dall’attrazione nei confronti di Assia Wevill.

Il blu cobalto della sua aura era sommerso dal rosso furibondo del suo sangue. Durante gli ultimi mesi la sua vita fu governata da tiranni di un fondamentalismo in cui avevano valore solo gli estremi assoluti: nero o bianco, tutto o niente. Il destino che spettava a ogni personaggio del suo dramma toccò anche a me: non appena non poteva più adorare una persona, doveva – con la stessa fervente passione con cui la venerava – odiarla. Non conosceva altra maniera di tenere in vita l’amore. Tra le righe di tutte le spietate malignità, l’unico vero messaggio del diario era che non voleva più vivere se non fossi tornato da lei.

L’11 febbraio del 1963 la Plath, ormai allo stremo delle forze, cerca una liberazione definitiva e si sacrifica: lascia sui comodini dei suoi figli un bicchiere di latte e un piatto con dei biscotti, si barrica in cucina, mette la testa nel forno e apre la valvola del gas. Sei anni dopo, nel marzo del ’69, la Wevill metterà fine alla sua vita nello stesso modo (ispirata da Sylvia?) uccidendo anche la figlia Shura di quattro anni avuta nel frattempo da Ted. E se questo non sembra abbastanza, anche Nicholas Farrar Hughes, il secondogenito di Ted e Sylvia, ha messo fine alla sua vita nel 2009 (la primogenita, Frieda, invece oggi è una poetessa e pittrice). Sembra una vera e propria maledizione, interpretazione non del tutto fuori luogo perché tutta la vita della coppia «maledetta» pare segnata dall’esoterismo e dal simbolismo: sogni ricorrenti, la volpe e la lepre (che vedete in copertina, perché hanno un significato particolare all’interno del romanzo), eventi e date che si ripetono, premonizioni. Insomma, il racconto di Hughes, attraverso le parole di Connie Palmen, sembra qualcosa di magico.

Ne viene fuori l’immagine di un uomo a pezzi, che ha condiviso moltissimo con una donna molto diversa da lui (come diverse erano le loro opere, lei più legata all’esperienza, di forte stampo autobiografico), e che ha perso altrettanto. La Palmen, per ricostruire questa autobiografia, si è basata sulla produzione di entrambi i poeti, lettere, biografie – sulla Plath ce ne sono a bizzeffe, molte delle quali con interventi di amici della coppia che dopo il suicidio sono piombati come avvoltoi per dire la loro – e soprattutto poesie, ma anche ad esempio le introduzioni che Hughes faceva alle opere della Plath. Insomma, il materiale da cui l’autrice ha preso spunto è davvero corposo e si capisce perché il libro risulti così bello e coinvolgente.

Io ve ne consiglio proprio la lettura, non ve ne pentirete!

Titolo: Tu l’hai detto
Autore: Connie Palmen
Traduttore: C. Cozzi e C. Di Palermo
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 12 aprile 2018
Pagine: 288
Prezzo: 17,50 €
Editore: Iperborea


Connie Palmen – Nome di spicco del panorama letterario olandese contemporaneo, è nota soprattutto per il suo romanzo d’esordio, Le leggi (Feltrinelli, 1993), con cui si è subito imposta all’attenzione di pubblico e critica, in patria e all’estero. I suoi libri traggono spesso ispirazione da fatti e persone reali e indagano con fine sensibilità il rapporto tra identità individuale e mondo esterno, tra la verità sempre sfuggente e il peso che hanno lo sguardo e le parole di chi la interpreta. Con Tu l’hai detto ha vinto nel 2016 il Premio Libris, il più prestigioso riconoscimento letterario olandese.

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