Parole nella polvere | Máirtín Ó Cadhain

Chissà com’è stato il mio funerale.
Non lo saprò finché non arriva il prossimo morto che conosco.
È anche ora che arrivi qualcun altro.

 

Ci troviamo in un cimitero del Connemara, una zona aspra e selvaggia dell’Irlanda dell’ovest, orientativamente a cavallo degli anni Quaranta. In questi luoghi di norma regna il silenzio, o almeno è ciò che chiunque si aspetterebbe. Invece lì c’è un borbottio continuo, un insieme di voci che si accavallano, l’una vuole sovrastare l’altra, ma i vivi non possono sentirle. Sono le voci dei defunti, che si ritrovano tutti insieme sottoterra una volta finita la loro vita sulla Terra. Il problema è che, se da vivi molti non si potevano soffrire l’uno con l’altro, lì sotto è pure peggio, perché sono stati sepolti vicini. Protagonista indiscussa di battibecchi, pettegolezzi e baruffe è Caitríona Pháidín, una donna cocciuta e presuntuosa che sembra essere in lotta col mondo intero: è arrabbiata col prete, con la sorella Nell, con la nuora, con la suocera e chi più ne ha più ne metta. Il suo problema principale è sapere se, dopo averla sepolta, suo figlio Pádraig e gli altri si siano occupati di farle costruire una bella croce in pietra dell’isola da mettere sulla tomba. Perché lei non può saperlo, come nessuno lì sotto può sapere nulla. L’unico modo per venire a conoscenza di ciò che è successo su da quando hanno smesso di vivere è che arrivi un nuovo defunto a portare notizie più fresche, così il loro svago principale diventa contare i giorni ai loro amici e parenti ancora vivi: quella stava già male, chissà quanto le rimane; quell’altro aveva avuto un incidente, magari arriverà presto; quella lì al prossimo parto ci resterà secca.

Questa è la storia che Máirtín Ó Cadhain (che si pronuncia all’incirca Martin O’Cain) ci racconta in Parole nella polvere, un romanzo pubblicato da Lindau nel 2017 che ho comprato lo scorso anno a Una Marina di libri su consiglio dei ragazzi allo stand dell’editore. Qualcuno lo ha definito una sorta di Spoon River irlandese con toni più ironici, ma credo sia più che altro per l’ambientazione e il contesto. Quello che mi affascinava di più, ad essere onesta, è il lavoro che ho scoperto dietro questo libro. Si legge sulla copertina che è il più grande romanzo mai scritto in gaelico, ed è proprio questo il problema principale per cui è stato così difficile che arrivasse al resto del mondo che non conosce il gaelico. In un post sul blog di Lindau, ma anche nell’introduzione e nella nota sulla traduzione alla fine del romanzo, viene spiegato che la traduzione italiana è mediata da tre versioni in inglese – una delle quali realizzata in un PhD in America, a Berkeley; ci hanno lavorato ben quattro persone, ciascuna delle quali ha tradotto la sua parte (ma poteva anche concentrarsi sulle battute di alcuni personaggi in particolare) per poi fare delle revisioni incrociate. Alla fine di questo processo comunque l’opera è passata al vaglio di un ultimo revisore.

Connemara [Fonte: wanderlust.co.uk]

Lo scoglio principale – sia per la traduzione che per la lettura – di questo romanzo è che i dialoghi sono confusi, non si capisce mai chi stia parlando perché non è mai specificato. Questo contribuisce a creare quell’atmosfera di confusione in cui Ó Cadhain vuole immergere i suoi personaggi, ma anche noi lettori. All’inizio non ci viene presentato nessuno dei personaggi, a parte un piccolo elenco all’inizio; dobbiamo considerare ogni battuta come un piccolo pezzetto di un puzzle da ricostruire. Capiremo così perché Caitríona è arrabbiata con tutti, quali sono le questioni di soldi ed eredità su cui tutti litigano, cosa sia successo tra la moglie del maestro e il postino dopo che il maestro è morto, e tante altre cose. È una storia, insomma, che si va componendo man mano che continuiamo la lettura. I dialoghi si trasformano inevitabilmente in litigi, nessuno vuole farsi mettere i piedi in testa, soprattutto Caitríona, tutti vogliono sapere in quale lotto sono stati sepolti, perché ogni lotto ha un prezzo diverso e i soldi spesi da chi li ha sepolti sono un’indicazione di quanto i parenti tenessero a loro.

L’autore, quando qualcuno speculò sulla somiglianza con Spoon River e con un racconto di Dostoevskij, dichiarò di aver assistito di persona a un fatto accaduto realmente nella sua zona qualche anno prima. A quanto sembra, in un cimitero del Connemara, dovevano seppellire una donna, ma i becchini aprirono la fossa sbagliata. Dato che la giornata non era delle migliori, non potevano scavarne un’altra, quindi decisero di mettere comunque lì la donna, ma qualcuno disse che l’avevano posta sopra un’altra donna che in vita era stata una sua nemica. Così, quando qualcuno disse «Santa pace, chissà che cagnara faranno!» nella mente Ó Cadhain s’è accesa la lampadina che lo ha portato a immaginare le baruffe di Caitríona, Nora, Muraed e tutti gli altri, i cui nomi non sono stati tradotti, ma sono stati lasciati nella loro forma originale (anche se immaginiamo che Caitríona sarebbe stata Katherine, Pádraig Patrick, e così via).

Confesso che mi sono divertita molto a leggere Parole nella polvere, nonostante la difficoltà palese di capire ogni volta quale personaggio stia parlando. Man mano che si va avanti nella lettura, però, la personalità di ognuno di loro viene fuori e ci si abitua a distinguere una voce dall’altra.
Buona lettura!

Titolo: Parole nella polvere
Autore: Máirtín Ó Cadhain
Traduttore: Luisa Anzolin, Laura Macedonio, Vincenzo Perna e Thais Siciliano
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 2017
Pagine: 383
Prezzo: 26 €
Editore: Lindau


Máirtín Ó Cadhain (1906-1970) è stato uno dei più importanti autori in lingua irlandese del XX secolo. Molto impegnato sul fronte politico, nell’ambito del nazionalismo irlandese e come socialista, promuovendo l’Athghabháil na HÉireann (la riconquista dell’Irlanda) attraverso la cultura gaelica, fece parte dell’Irish Republican Army con Brendan Behan durante la seconda guerra mondiale. Oltre a giocare un ruolo chiave nel rinnovamento della letteratura irlandese contemporanea, scrisse racconti, romanzi e pamphlet di argomento politico o linguistico-politico. Nel corso della sua vita è stato anche giornalista e insegnante di irlandese.
Cré na CilleParole nella polvere, è unanimemente considerato il suo capolavoro.

Vite vulnerabili | Pablo Simonetti

Niente lasciava trasparire la mia agitazione interiore,
L’ansia, la paura, il delirio di ciò che stava per accadere:
tutto era lì, contenuto nello stesso corpo
che procedeva tranquillo sotto la pioggia.

 

Quello di cui vi voglio parlare oggi è forse il libro che mi è stato consigliato di più negli ultimi tempi. Ora, io sono una che ha già abbastanza da leggere di suo e che quindi i consigli può seguirli proprio di rado, ma spesso considero anche da chi mi arrivano: se si tratta di persone per cui nutro una stima più profonda, allora cedo. Complice un buono Feltrinelli che mi è stato regalato per il compleanno qualche mese fa, ne ho approfittato e mi sono andata a comprare un Roth (di cui adesso non vi dico nulla, ma prima o poi lo leggerò) e Vite vulnerabili, una raccolta di racconti di Pablo Simonetti del 2005 edita in Italia da Lindau nel 2018. Leggendo qua e là, scopro che Simonetti è probabilmente il più grande scrittore cileno contemporaneo e che questo rappresenta il suo esordio letterario, quindi l’ho anche affrontato con parecchia curiosità.

I protagonisti di questi racconti sono persone normali, non hanno praticamente nulla di speciale, sono uomini e donne molto diversi tra loro socialmente, per età, per lavoro, eppure hanno qualcosa in comune, quel qualcosa di cui lo stesso Simonetti non si era accorto fino a quando non ha preso queste storie, che credeva slegate fra loro, per metterle insieme. I personaggi sono tutti uniti nella loro vulnerabilità (da cui deriva il titolo). C’è chi si è allontanato dai parenti da molti anni per aver sottratto denaro all’azienda di famiglia e decide di presentarsi all’anniversario di matrimonio dei genitori, chi basa la propria intera vita sul gioco del bridge e sarà costretto a barare a una finale molto importante, due sposini in luna di miele in Italia i cui desideri sembra non s’incontrino mai, o ancora un uomo che sperimenta l’omosessualità e ne rimane (forse) turbato, e una persona che pensa che la sua ossessione per i numeri dispari possa determinare il corso degli eventi.
Nelle vite di questi personaggi improvvisamente si apre uno squarcio, generato da desideri inconfessati, paure nascoste o questioni irrisolte, che li porta a fare i conti con se stessi. Sono situazioni particolari – spesso drammatiche – che causano una sorta di cortocircuito tra il mondo che hanno dentro di sé e il modo in cui la gente li vede da fuori. Iniziano a percepire estraneità nei confronti di se stessi e anche di chi li circonda, ma nonostante questo prendono delle decisioni importanti e affrontano consapevolmente le loro fragilità.

Cercavo un libro con della sostanza e l’ho trovato, e lo dimostra il fatto che non sono riuscita a leggere i racconti in modo continuativo uno dopo l’altro. Mi sono dovuta prendere una bella pausa finito uno, prima di cominciare il successivo, avevo bisogno di rifletterci su e soprattutto di metabolizzarlo. Simonetti ha la capacità di farci calare davvero nei panni dei suoi personaggi, non ci dà solamente un’idea del loro mondo interiore, ma per qualche pagina noi diventiamo loro, ne percepiamo i turbamenti, le paure, il coraggio. Tramite loro, forse, iniziamo anche noi a riflettere su noi stessi e a pensare se quello che abbiamo dentro corrisponde a ciò che gli altri avvertono all’esterno. Perché comunque è vero che nessuno è avulso dalla società, tutti noi, per quanto particolari, siamo immersi in un mondo comune in cui spesso i nostri desideri e i nostri impulsi cozzano con quelli degli altri o con quelli che gli altri considerano normali e si aspettano da noi.
Questo è tutto ciò che – con uno stile pacato ma deciso – l’autore cileno ci comunica e sui cui ci invita a meditare attraverso le sue storie. Devo davvero ringraziare chi mi ha segnalato questa lettura, perché ne è valsa proprio la pena. Non occorre dire che ve lo consiglio, qualora cerchiate qualcosa di diverso e di più introspettivo.

Buona lettura!

Titolo: Vite vulnerabili
Autore: Pablo Simonetti
Traduttore: Francesco Verde
Genere: Racconti
Anno di pubblicazione: 2018
Pagine: 177
Prezzo: 18 €
Editore: Lindau


Pablo Simonetti è nato a Santiago del Cile nel 1961. Si è laureato in Ingegneria Civile presso l’Universidad Católica della capitale cilena e poi ha conseguito un Master in Ingegneria Economica presso la Stanford University in California.
Dal 1996 ha deciso di dedicarsi completamente alla letteratura e nel 1999 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti Vidas vulnerables, che ha ottenuto la Mención Especial al Premio Municipal de Literatura di Santiago. Nel 2004 è la volta del primo romanzo, Madre que estás en los cielos, cui seguiranno La razón de los amantes (La ragione degli amanti, Corbaccio 2009), La barrera del pudor, La soberbia juventudJardín e Desastres naturales, uscito nel 2017. Oltre alla scrittura e ad altre attività culturali, Pablo Simonetti è impegnato anche come attivista per i diritti degli omosessuali.

Hannah Coulter | Wendell Berry

Questa è la storia della mia vita,
che mentre vivevo ha gravato sulle mie spalle,
mi ha incalzata e mi ha impegnata fino allo spasimo,
e che oggi sembra soltanto il ricordo di un sogno.

 

Lo so, divento monotematica e parlo ancora della mia esperienza a Una marina di libri, però qui sono costretta a farlo perché si tratta di una premessa importante. Come ho già detto l’altra volta sono stata a dare una mano allo stand Giuntina; se a destra avevo il bar, a sinistra ci siamo trovate ad avere come vicini Mauro e Alberto di Lindau, una casa editrice torinese che conoscevo solo per sentito dire e che ho avuto modo, quindi, in quei giorni, letteralmente di scoprire. Non so perché ancora non avessi letto niente, non c’è un motivo particolare, ma devo dirvi che hanno un catalogo parecchio interessante. Morale della favola, mi sono portata a casa ben tre volumi, e di uno di questi parleremo oggi, perché fa parte di una sorta di saga ambientata a Port William, un villaggio rurale fittizio situato nel Kentucky. L’autore di questi romanzi che hanno come collegamento essenzialmente questo setting o qualche personaggio che può apparire qua e là – e quindi non devono essere letti seguendo un ordine preciso – è Wendell Berry, uno statunitense classe 1934, che oltre ad essere scrittore, poeta e critico è anche agricoltore, attivista ecologista e pacifista. Come mi spiegavano i ragazzi di Lindau, potrebbe essere uno di quei pochi scrittori a vedere tutta la sua opera pubblicata con traduzione finché è ancora in vita.

Port William in tutta la sua realtà e il suo mistero, in tutte le sue luci e le sue ombre, con il suo nome che costituisce esso stesso un enigma. Per quale ragione costruire mai un villaggio sulla cima o comunque sul fianco di una collina, a mezzo miglio dal fiume, dandogli il nome di «porto»?
Gli abitanti di Port William si sono sentiti ripetere quella domanda all’infinito e alla fine ci hanno fatto il callo. Ben Feltner, il nonno di Virgil, dava sempre la stessa risposta: «Quando hanno costruito Port William non sapevano esattamente dove sarebbe passato il fiume».

Il romanzo che ho letto io è Hannah Coulter, dal nome della protagonista che ci narra la sua storia in prima persona. Hannah è nata in una famiglia molto umile, abita in una fattoria con la nonna e il padre, perché la mamma non c’è più. Quando il padre si risposa con una donna che ha già due figli da un primo matrimonio, Hannah viene cresciuta e protetta dalla nonna che le insegna come stare al mondo e le fa capire anche quando è ora di prendere la sua strada. Si trasferisce così in una stanza in affitto nella casa di una vecchia amica della nonna, si trova un lavoro come segretaria e mette da parte qualche soldino. A quel punto, conosce Virgil Feltner, di cui piano piano s’innamora e che sposerà. Ma l’idillio dura poco, perché il ragazzo viene mandato in guerra per non tornare mai più. Hannah, con una bambina che non conoscerà mai suo padre, ci mette qualche anno per guarire da questo dolore, e quando realizza che la vita va avanti s’innamora (stavolta di un amore diverso e più maturo) di Nathan Coulter, che le darà una vita felice e altri due figli.

Il tempo non si arresta. La vita non si ferma ad aspettare che tu sia pronta per cominciare a vivere.

A raccontare questa storia, che è una sorta di testamento o di autobiografia, a seconda di come la si veda, è una Hannah ormai anziana che sa di aver vissuto una vita tutto sommato felice; di dolori ne ha avuti molti, ma capisce che sono nell’ordine naturale delle cose. Nel villaggio di Port William, di cui non è originaria ma in cui è approdata quando ha iniziato ad essere indipendente, ormai sono rimasti in pochi, i figli (e i figli dei figli) dei suoi coetanei sono andati via per studiare all’università o per farsi una vita altrove. I tempi cambiano e i ragazzi non vogliono più campare di agricoltura o allevamento, ma c’è chi diventa insegnante, chi si interessa alle tecnologie e all’informatica e chi inizia studiando agraria e finisce per fare ricerca. Hannah vive nella casa che Nathan le ha costruito e che ora qualcuno vuole che venga fagocitata dal mercato immobiliare. È l’effetto del passare del tempo.
Ma in questi luoghi non ci sono soltanto quei pochi figli-dei-figli-di che hanno scelto di continuare ad essere agricoltori, bensì anche i fantasmi di chi non c’è più, che continuano a rivivere nel ricordo di ognuno dei personaggi, nello specifico di Hannah.

Con Hannah Coulter devo confessarvi che mi si è aperto un mondo. Volevo scoprire questi romanzi di Port William di cui tanti mi avevano parlato così bene e non sapevo da quale iniziare, così mi hanno consigliato questo dicendomi che probabilmente era quello più rappresentativo dello stile di Wendell Berry. Che dire? Sono stata catturata fin dalle prime pagine da questo modo di raccontare non troppo veloce – perché Hannah ormai è anziana, non ha fretta di gettare parole nel calderone tutte insieme – ma allo stesso tempo così intenso, e soprattutto mi sono dimenticata fin da subito che lo scrittore fosse un uomo. Sì, perché Berry non fa parlare Hannah semplicemente adottando un linguaggio femminile, ma si cala proprio nella mente di una donna, si pone i problemi di una donna, ne prende in prestito la mentalità.

Adesso non mi resta che recuperare gli altri romanzi ambientati a Port William, luogo che già sento di conoscere (alla fine del libro c’è anche una cartina del villaggio). Io di mio sono un’amante di questo tipo di storie, quelle che non hanno necessariamente una trama fitta di avvenimenti, ma che non sono altro che i racconti della vita di qualcuno. Questo è stato un’esperienza incredibile e se non lo conoscete ancora correte a leggerlo.
Buona lettura!

Titolo: Hannah Coulter
Autore: Wendell Berry
Traduttore: Vincenzo Perna
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 2014
Pagine: 276
Prezzo: 19 €
Editore: Lindau


Wendell Berry (5 agosto 1934) è un romanziere, poeta e critico culturale, ma anche agricoltore, attivista ecologista, pacifista. Autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, ha ricevuto una lunga serie di riconoscimenti e fellowship e ha insegnato in diverse università nordamericane. Critico di quella che chiama l’«economia faustiana» del nostro tempo, Wendell Berry intreccia la riflessione poetica e spirituale sui valori della vita rurale con i temi del rispetto ambientale e dell’agricoltura sostenibile, pronunciando una condanna impietosa dell’American Way of Life. Oggi vive con la moglie in una fattoria del natio Kentucky. Jayber Crow è il suo primo romanzo tradotto in italiano.